Nel cuore di una terra antica, tra le profonde pieghe delle montagne e le dolci onde del mare, si cela un’atmosfera carica di mistero e magia.

La stregoneria in Sardegna è una delle espressioni più affascinanti della spiritualità dell’isola, un intricato intreccio di tradizioni millenarie, miti pagani e cristiani, eredità culturali e profonde radici ancestrali.

Michela Murgia, nella sua opera “Accabadora”, ci conduce in un viaggio attraverso la Sardegna più oscura, dove la stregoneria si fa palpabile presenza, incastonata nel tessuto della vita quotidiana.

Accanto alle figure dei “benandanti” e dei “maestri delle acque”, emerge la figura enigmatica e controversa dell’Accabadora, la donna che, con il suo bastone di nocciolo, decide del destino degli altri.

Ma cosa rende così affascinante la stregoneria in Sardegna? 


Forse è il suo legame profondo con la natura, una natura selvaggia e maestosa che permea ogni aspetto della vita isolana. O forse è la sua capacità di fondere il sacro e il profano, il bene e il male, la religione alla favola della buonanotte, — quella che non fa dormire, che ti risveglia il sangue e accende gli occhi di curiosità un po’ felina—, tutto in un’unica dimensione, rendendo ogni gesto, ogni incantesimo, una danza tra luce e ombra.


L’Accabadora, in particolare, è una figura che suscita un mix di paura e fascino. Nella tradizione sarda, era colei che poneva fine alle sofferenze, che con il suo bastone misurava la fine della vita dei malati terminali. Una sorta di angelo della morte, maestra nell’arte del “bonum exitum”, del “buon fine”, come la chiamavano le antiche cronache.

Nell’opera di Michela Murgia, è rappresentata da Bonaria Urrai, una donna forte e risoluta, che si assume il compito di porre fine alle sofferenze altrui. Tuttavia, dietro il suo volto severo si cela una profonda umanità, una consapevolezza della fragilità della vita e del dolore che essa porta con sé. 

La mia mano non trema mai“, dice Bonaria, incarnando la forza e la determinazione di una donna che si confronta con il mistero della morte ogni giorno. Eppure, dietro quella fermezza c’è anche una profonda tristezza, un senso di solitudine di fronte al peso di una responsabilità così grande.

Ma l’Accabadora non è solo un personaggio di fantasia, è una figura che affonda le radici nella storia e nella cultura sarda; nella storia di un popolo duro e insieme accogliente, senza spigoli ma tutto angoli, che cammina continuamente sul confine della diffidenza e dell’amore per il mondo, sopratutto il proprio, fatto di terra e di salsedine che brucia la gli occhi e le mani, di notti d’estate e di venti che costringono ad aggrapparti ai muri nelle strade.

L’Accabadora è anche questo, lo specchio di un popolo che conosce l’amore purgato dalla sofferenza del sacrifico, lavato nel controsenso, nel viscerale utero materno che ti alleva ma, per renderti più forte, ti bastona anche, ti spinge fuori dal nido. Eros e Thanatos, un ciclo senza fine. L’amore che non ha paura della morte, ma piuttosto la invoca.

Nei secoli passati, la pratica dell’eutanasia era diffusa in Sardegna, soprattutto nelle aree rurali, dove le condizioni di vita erano spesso estreme e le risorse limitate. L’Accabadora, con la sua presenza discreta ma potente, offriva una via di uscita al dolore insopportabile, un atto di pietà in un mondo crudele.

Eppure, la stregoneria in Sardegna non si limita a figure come questa. Ci sono anche le “fattucchiere”, le guaritrici che con erbe speciali e incantesimi curano le malattie e i mali dell’anima, che tolgono il malocchio a suon di preghiere e imposizioni delle mani. Ci sono i “sorti”, gli indovini che leggono il futuro nelle carte o nelle viscere degli animali. E ci sono i “misteriosi”, gli iniziati che conoscono i segreti degli antichi riti e delle divinità pagane.

In questa terra dove il confine tra realtà e magia è labile, ogni gesto quotidiano è permeato da una sorta di incanto. Dalla preparazione del pane al canto dei pastori, dalla danza delle feste paesane al rito della vendemmia; tutto è un atto sacro, un tributo alla natura e agli spiriti che la popolano.

La magia qui è anche e soprattutto un viaggio interiore, un percorso di conoscenza di sé e del mondo. Come scriveva la scrittrice sarda Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, “In Sardegna si crede nelle streghe perché tutti noi siamo streghe“. Questa è la chiave per comprenderne il vero significato: essa risiede dentro di noi, nelle nostre paure e nei nostri desideri, nei nostri sogni e nelle nostre speranze.

Attraverso l’opera di Murgia e le testimonianze della tradizione popolare, possiamo cogliere l’essenza profonda della stregoneria nella prospettiva dell’isola “delle creature”. Una pratica antica e misteriosa, che continua a vivere nel cuore dei suoi paesini remoti, tra le sue montagne selvagge e le sue spiagge dorate, tra le sue leggende e le sue favole arcane. 

In un mondo sempre più razionale e materialista, infatti, il mito della Strega ci ricorda l’importanza di mantenere vivo il legame con le nostre radici, con la terra e con le antiche tradizioni che ci hanno plasmato. Essa ci invita a guardare oltre la superficie delle cose, a scoprire il mondo magico che si nasconde dietro il velo della realtà.

E così, tra le pieghe della storia e le ombre della notte, la magia continua a brillare come una stella nel buio, un faro di saggezza e di mistero che ci guida nel labirinto della vita. Come scriveva lo scrittore Jorge Luis Borges, “Il mondo è un luogo di incanto. E l’incanto è la magia“.

Che la stregoneria possa continuare a incantarci ancora per molto tempo allora, non solo in Sardegna ma anche altrove, fin dove si arriva con la mente e col cuore, con le proprie radici e con la punta delle dita.


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