Nel 2023, quando è diventato virale il grottesco video A.I. dell’attore Will Smith che mangia spaghetti, nessuno sapeva che quello sarebbe stato solo l’inizio.

La reazione negativa al dilagare dei contenuti A.I. sta crescendo, e con essa un più ampio disprezzo per questo progresso tecnologico, che sembra sempre peggiorare la qualità delle piattaforme e della nostra vita. La mia generazione sta lentamente rivendicando quella che un tempo era l’opinione “da vecchi”, cioè che questa roba ci sta friggendo il cervello. La Dead Internet Theory sta diventando Dead Internet Reality.

Sei pro o anti-A.I.? Pensi che sia un nuovo orizzonte, o un inutile giocattolo che consuma l’energia elettrica di sette città per aumentare il valore azionario delle Big Tech? Questi sono i due lati del “dibattito”, e uno dei rami più perniciosi di questo dibattito è:
“C’è posto per l’A.I. nell’arte?”
Di recente ha fatto scalpore la notizia che a Hollywood alcune agenzie di talent sono interessate a rappresentare la prima “attrice A.I.”: Tilly Norwood. Una donna giovane, bella e… inesistente. Con la sua bellezza algoritmica e la sua disponibilità a lavorare senza garanzie sindacali, potrebbe rivoluzionare l’industria.

Nello sciopero degli sceneggiatori del 2023, fra le tante condizioni era stato chiesto che l’uso dell’A.I. fosse regolamentato per evitare lo sfruttamento di materiale creativo senza compenso. Agli occhi di chi ha a cuore gli artisti e il lavoro umano, essere pro-cinema e pro-arte sembra implicare essere anti-A.I.
E non solo nel cinema, ma anche nella musica.

Questa è Xania Monet, una cantante R&B creata dall’A.I.. Una poetessa di nome Telisha Jones scrive i testi delle canzoni, li immette in un’app e “Xania” li canta per lei. Eppure è Xania, non Telisha, ad aver firmato un contratto discografico da tre milioni di dollari, suscitando ovviamente una marea di critiche. Jones si difende insistendo che il suo è un “progetto musicale”, capitanato da una vera autrice umana.
Xania ovviamente non è la prima artista musicale A.I. di spicco. Sulla piattaforma musicale Spotify, una misteriosa band chiamata “Velvet Sundown” ha raggiunto milioni di ascolti nel 2025. Questa band non esiste: la musica è A.I., i membri stessi sono A.I., e le foto postate sul loro profilo Instagram sono (chiaramente) A.I.:

Per i primi tempi, i gestori dei profili social della band hanno continuato a fingere (sottolineo: molto male) che i Velvet Sundown fossero un gruppo in carne ed ossa. Solo dopo, quando l’attenzione è diminuita, hanno confessato la farsa. Anche loro si sono difesi dicendo che la band era un progetto; un esperimento sociale.
Io ero uno dei tanti utenti che ha osservato fin dall’inizio il fenomeno Velvet Sundown e lo ha subito trovato ridicolo. Eppure, non tutti fra migliaia di ascoltatori si sono accorti dell’inganno. Forse hanno solo pensato di stare ascoltando musica generica – non generativa. Chi non presta attenzione ai contenuti che consuma, chi li usa come sottofondo, resta ignaro (o forse indifferente) dell’artificialità di tali contenuti.
D’altro canto, molti fruitori di contenuti sono consci dell’invasione di A.I. e sono iper-vigili, pronti a sospettare qualunque foto, video, canzone, o volto umano che sembra un po’ troppo generico. “Sembra fatto dall’A.I.” non è solo una constatazione, è un insulto. Immaginate creare un’opera d’arte così mediocre da perdere lo status di essere umano.
Inutile negarlo: un nuovo puritanesimo hipster sta nascendo.
Chi cerca (o si vanta di cercare) “autenticità umana” aborrisce l’uso dell’intelligenza artificale nell’arte in qualunque misura (anche se usata poco, come nel caso del film The Brutalist, o del presunto uso che Taylor Swift ne ha fatto nella promozione del suo nuovo album). Rischia di diventare un po’ la versione artistica di chi mangia solo costosi cibi “organici”, “non chimici”. E siccome i prodotti A.I. sono più economici e veloci da fare, si rischia uno scisma elitario fra l’arte umana/biologica/costosa e il contenuto-sbobba per poveri schiavi dello schermo che non hanno tempo di coltivare i propri gusti estetici. Tu vai al McDonald, io ascolto i vinili; we are not the same.
E’ giusto, perciò, escludere l’A.I. dall’arte?
Nella maggior parte dei dibattiti, io sono anti-A.I.. Odio l’onnipresenza di questa tecnologia, e detesto il proselitismo fatalista dei tech-bros. D’altro canto però, ho anche paura di essere dalla parte sbagliata della storia; che un giorno si guardi ai puristi anti-A.I. come oggi guardiamo i luddisti che bruciavano le fabbriche tessili nel primo Novecento. La paura di essere lasciati indietro dal cambiamento ci affligge, specie in un mondo come questo, in cui il progresso tecnologico (e non quello sociale) sembra inevitabile e infinito.
Eppure, sulla questione Tilly Norwood, mi chiedo: perché?
Se la tecnologia ha raggiunto un livello per cui generare persone inesistenti al computer è fattibile e conveniente… perché non generare direttamente i personaggi di un film? Perché creare un’attrice che recita tali personaggi? Stessa cosa: se vuoi creare una canzone rock al computer, perché generare anche una band che la suona? Se i contenuti creativi online possono essere riciclato all’infinito, perché creare anche un finto umano che li fa?
Il motivo forse è semplice: non vogliamo l’arte senza un artista.
E’ per questo che gli artisti A.I. si difendono sempre insistendo che l’intelligenza artificiale è solo uno strumento in mano a una persona reale. Come fai a veicolare un messaggio senza messaggero? Quindi forse la vera arte, quella con un intento autoriale, è al sicuro (per adesso). A essere sostituibile forse è tutto il resto dei contenuti, quelli consumati senza attenzione, il cui intento autoriale è, bene o male, trascurabile. L’intrattenimento. Il fast-food dei sensi. Fa male alla salute però è comodo, efficiente e lucrativo.
Ma se l’A.I. fosse un semplice strumento, un medium artistico… che medium sarebbe?
Torniamo al video di Will Smith che mangia spaghetti. Quando è uscito, tutti abbiamo riso di quanto fosse ridicolo. Poi l’accuratezza dei video A.I. è aumentata e le risate si sono spente. Sì, Sora 2 può creare una perfetta replica di una scena di vita reale. Eppure, oltre a dare prestigio alla tecnologia in sé, che cosa ha di speciale tutto ciò? Nulla. Posso già filmare una scena con una telecamera… ma non potrei mai, con una telecamera, realizzare quel primo video di Will Smith che mangia spaghetti. L’unicità del mezzo dell’A.I. generativa non sta nella sua perfetta imitazione della realtà, ma nei suoi difetti: quel modo unico in cui i fotogrammi si sbavano l’uno sull’altro e le forme si distorcono.
Il regista italiano Andrea Gatopoulos è stato candidato ai David di quest’anno con il corto “The Eggregores’ Theory” (disponibile su Mubi e RaiPlay). Il corto è composto da una serie di fotogrammi realizzati solo dall’A.I.. Sono immagini semi-astratte, uncanny, disturbanti. Sembrano venire da un sogno, o da un vago ricordo di ciò che era il mondo umano. L’apporto estetico di questa tecnologia si lega molto bene al messaggio e al tema del corto.

Gatopoulos è uno dei pionieri di una corrente artistica di filmmaking fatto interamente su un computer. Il suo contributo è fondamentale per dettare i confini del cinema del futuro. Questa è la via di salvezza dal dibattito sull’A.I. nella creatività. Sì, ciò che questi software producono è spesso sbobba, è “non-arte” – ma fare della non-arte un’arte, è in fondo, ciò che noi umani sappiamo fare meglio.
